Andrea Carnevale rivive gli anni di Pescara: “Ambiente straordinario. Mi piacerebbe tornare…”

PESCARA – È senza dubbio una gran bella storia da raccontare. Di quelle che solo il calcio riesce a regalare. Andrea Carnevale e il Pescara. Una storia di trent’anni fa. Di un campione che decide di scendere di categoria. Per essere trascinatore, un leader. O se vogliamo una figura carismatica. Carnevale ci riporta indietro a quegli anni novanta, che in molti rimpiangono. E soprattutto all’era Scibilia. Un periodo controverso. Tra odio e amore, sospeso su un filo sottile. Anni che oggi vengono ricordati con rimpianto. E tanta nostalgia. Sicuramente si poteva ottenere di più da quella squadra. Invece fu un Pescara rimasto un po’ incompiuto. Ma che comunque riuscì a lasciare un ricordo. Con la consapevolezza che si era di fronte ad un altro calcio. E che si era dentro un’altra era. Ma quel Pescara non poteva non avere il volto di Andrea Carnevale. Un campione che prima era riuscito a vincere due scudetti, una Coppa Uefa e una Coppa Italia a Napoli. E quello era il Napoli di Diego Armando Maradona. Ma Pescara, a modo suo, rappresentó una tappa significativa per lui. Che rivive le sensazioni di quegli anni. Rivive quel Pescara, di cui lui divenne un simbolo. In una città dove si è sempre sentito amato. E i simboli non sbiadiscono. Mai. Anche dopo tutto questo tempo.

A distanza di trent’anni, cosa ha rappresentato per te Pescara?

“Io giocavo in Serie A e sono voluto andare a Pescara. Perché era vicino casa, ma poi anche per il mare. C’era Pierpaolo Marino che mi convinse. Mi disse che il presidente Scibilia mi voleva a tutti i costi e che ci si doveva salvare. Questo fa parte un po’ della mia vita, combattere per un obiettivo. Lasciai l’Udinese ad ottobre e andai a Pescara perché lo volevo io. A me allettano le sfide. Mi piacque questa cosa della salvezza e venni con la testa giusta”.

A Pescara ti portó Pierpaolo Marino, durante la presidenza di Pietro Scibilia. Quella squadra aveva te come punto di riferimento. Furono annate dove però non si riuscì ad esprimere a pieno tutto il potenziale. Secondo te perché?

“In particolare il secondo anno con Franco Oddo. E non mi trovai bene con lui. Già al primo incontro a Mosciano, dove aveva le aziende Scibilia, non mi colpì particolarmente. Ma io non potevo dire di no al presidente. Iniziammo il campionato con una squadra forte. Poi ci furono cose che non mi piacquero. C’era anche qualche giornalista che si schierò contro di me. Mi infortunai a Reggio Calabria. Il secondo anno non stavo bene come il primo. Lo dissi al presidente e andai via”.

Quello era peró un grande gruppo, di cui tu rappresentavi il vero leader. Quali sono i compagni di squadra che hai avuto in biancazzurro a cui sei rimasto particolarmente legato?

“Ancora oggi sono legato a Dario Di Giannatale. Mi manda spesso delle poesie. Lui mi adora e lo adoro anche io. È davvero un ragazzo genuino. Poi è rimasto il legame con Gianluca Colonnello, Ottavio Palladini, Totó Nobile, un gran signore e un grande giocatore. Loro si aggrapparono a me. Io a 35 anni feci 15 gol. C’era un ambiente straordinario, mi hanno voluto tutti bene e ancora oggi ho tantissimi amici a Pescara. Un giorno mi piacerebbe tornarci a lavorare”.

In quegli anni Pescara voleva ritornare in alto. La piazza non si accontentava dopo essere stata in A negli anni precedenti. Scibilia venne contestato dalla tifoseria. Tu che ricordo hai del Commendatore?

“Io ho conosciuto una persona straordinaria, un uomo di altri tempi. Così come anche il genero Antonio Oliveri. Scibilia mi invitava sempre alla sua gelateria, in quel periodo mi riempì di gelati. Lui voleva tornare in serie A, ma c’erano dei limiti economici”.

Pescara ha fatto innamorare tanti calciatori, che poi hanno scelto di restarci a vivere. Tu che città trovasti all’epoca?

“Pescara è una bellissima città. Io sono 23 anni che vivo a Udine. Ma se nel 2001 mi avesse chiamato il Pescara io avrei vissuto lì. C’è il mare, si mangia bene, la gente è calorosa. Mi ha ricordato un po’ Napoli. Pescara mi manca”.

A Napoli per te arrivarono due scudetti nell’ ‘87 e nel ‘90. Anni memorabili che tu hai avuto la fortuna di vivere da protagonista…

“Mi ritengo un ragazzo fortunato. Quella era una squadra stellare con Diego Armando Maradona. Vincemmo due scudetti, ma anche una Coppa Uefa e una Coppa Italia. La determinazione e il cuore mi hanno dato quello che si sogna da bambino. Ho giocato anche un mondiale, ne sono orgoglioso. E anche un’olimpiade. Al mondiale (Italia ‘90, ndr) sbagliai due gol e persi il posto da titolare. Così giocó Totó Schillaci”.

Cosa vuol dire per un calciatore aver giocato con Diego Armando Maradona?

“Ancora oggi stento a credere che non ci sia più. Diego era mio fratello. Sono quasi tre anni che non c’è più e mi manca. È stato il calciatore più forte del mondo, in tutti i sensi. Diego era unico nella generosità. Ti dava sempre una pacca sulla spalla, uscivamo insieme. Quando tornava in Italia mi chiamava sempre. Un campione autentico anche come uomo”.

Il ‘90 fu un anno cruciale per te, secondo scudetto con il Napoli e trasferimento alla Roma. Poi però hai dovuto subito fermarti per la squalifica che ti venne inflitta per doping. Fu una brusca frenata per la tua carriera…

“Mi frenó la federazione. Quello che presi io era un farmaco. Mi hanno dato un anno e mi hanno spezzato la carriera. Io ero capocannoniere in quel momento. E avevo una grande squadra, con Voller, Giannini, Nela… Era una signora squadra. Io fui fermato dopo Roma-Bari e mi trovarono positivo. Poi sono stato assolto nel penale”.

Adesso sei responsabile dell’area scouting dell’Udinese. Che società è quella friulana?

“È una società straordinaria. Alla pari con le grandi squadre. Una società modello con uno stadio di proprietà, con grandi strutture interne. I presidenti sono grandi imprenditori che sono avanti anni luce. Mi auguro che le società possano seguire questo modello. Io sforno campioni. Negli ultimi anni facciamo difficoltà, soprattutto perché è difficile competere con le proprietà estere. In Italia società come la nostra si devono mantenere. Non è facile fare 30 anni in serie A. Io sono orgoglioso di essere a capo dello scouting”.

Daniele Rossi

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